Secondo giorno di udienza e prime interessanti schermaglie da raccontare.
Entriamo in aula e ci troviamo l’emiciclo pieno di detenuti circondati dalla gendarmeria armata. Gli avvocati sono sui due lati, su più file di piccole scrivanie. Il pubblico si trova di fronte al collegio dei Giudici coperti dai numerosi detenuti. Lo spazio per il pubblico, per i parenti e le delegazioni estere è molto ridotto in proporzione all’aula che è di circa 200 metri quadri.
Tutti ci salutano e fanno cenno di aver capito chi siamo. La felicità dei detenuti, uomini e donne, è disarmante; sono contenti di vederci e per un attimo dimenticano di essere chiusi in carcere da 18 mesi, in condizioni di isolamento e costretti a difendersi da accuse tanto inesistenti quanto gravissime.
La Corte di Assise, per niente popolare, perchè composta da tre giudici togati, è una Corte Speciale per reati di mafia e terrorismo e fino a pochi anni fa si fregiava anche di giudici militari. Il Pubblico ministero siede al loro fianco accompagnato da numerosi faldoni che formano gli atti di accusa. Oggi i giudici devono sciogliere la riserva su due richieste proposte dagli avvocati:
-1- che gli imputati possano difendersi in lingua kurda, come previsto dai Trattati internazionali (art. 39 del Trattato di Losanna del 1923) che prevedono il diritto di difesa nella propria lingua madre;
-2- che il capo di imputazione, composto da circa 7000 pagine possa essere ridotto a 900 pagine e permettere di svolgere il processo in tempi liberi.
Un grande schermo permette di seguire anche ciò che avviene vicino alla Corte.
Assistiamo all’appello degli imputati (103 detenuti e 48 liberi) e a quello degli avvocati (150, per lo più costituiti in collegio per tutti i detenuti).
Poichè la maggior parte dei detenuti e delle detenute sono amministratori di Enti Locali (Comuni e Province del Kurdistan) e sono Sindaci di città che svolgono attività politica da molti anni, i loro volti sono sereni e per niente intimiditi dall’apparato poliziesco che li circonda; le donne sono fiere e guardano gli uomini dritto negli occhi e, se si girano verso il pubblico, sorridono dolcemente, quasi ringraziandoci della presenza; un velo copre i loro occhi solo quando volgono lo sguardo verso i familiari che sono giunti da tutti i centri del Kurdistan, dopo averli seguiti in tutte le carceri della Turchia, quelle speciali, con misure di sicurezza differenziate da quelle degli altri detenuti. La Corte rifiuta entrambe le richieste proposte dalla Difesa e decide di procedere nella identificazione degli imputati. Gli Avvocati lamentano che i
loro avvocati-praticanti di studio non sono stati autorizzati ad entrare in aula. La Corte ribadisce il divieto senza motivare.
Si procede all’identificazione di ciascun imputato ma, appena questi cominciano a dire il proprio nome e indirizzo in Kurdo, vengono interrotti dal Presidente che preferisce leggere lui stesso, nome e cognome, pretendendo solo un sì o uno no. La risposta è sempre in Kurdo. Gli imputati non accettano il divieto di parlare in Kurdo e cominciano a parlare la loro lingua. Il pubblico sorride rumorosamente, ma i giudici imperterriti continuano a leggere in turco e gli imputati a rispondere in Kurdo. Un imputato si giustifica per non poter parlare in Kurdo, perchè esiliato e quindi a conoscenza della sola lingua turca. Fuori dall’edificio del Tribunale le delegazioni continuano a manifestare la loro solidarietà con canti e danze che ricordano la vita dei partigiani in montagna e invitano a partecipare alla lotta per la liberazione del popolo kurdo. Gli imputati si esprimono nelle varie espressioni del Kurdo moderno a seconda delle zone di provenienza. In questo modo continuano a rispondere ed essere interrogati dal Presidente, il quale, con costanza, legge le loro generalità in turco.
Ormai si tratta di una farsa che travolge la Corte e rende “nudo” il Tribunale e le sue leggi che impongono regole inutili e ridicole. E’ una prima vittoria per il Collegio di Difesa degli imputati, che hanno imposto la propria lingua nonostante i divieti e le ipocrisie di un Governo che nella Costituzione ha autorizzato l’uso della lingua kurda, ma di fatto, la vieta a proprio piacimento.
Mai più un Kurdo parlerà in turco nei Tribunali, dove si accusa un popolo per la propria appartenenza etnica.
Questo processo segna una svolta storica nella strategia di liberazione del popolo kurdo. Vediamo alternarsi davanti ai Giudici, i Sindaci dei paesi che sono stati privati di intere amministrazioni liberamente elette dai cittadini. Fra questi il Sindaco di Sirnak, il Sindaco di Batman, di Erzani, di Urfa, quello di Kiziltepe (Mardin), poi ancora il Sindaco di Viransceve (Urfa), la Sindaca di Bostanici, il Sindaco di Hakkari, i Presidente della Società Statale dell’Erogazione dell’Acqua.
Come già detto, qualche imputato parla in turco, giustificandosi perchè non conosce il kurdo, essendo stato deportato fuori dal proprio paese fin da piccolo. Altri ascoltano il proprio nome e indirizzo in lingua turca, poi dichiarano “esatto”, “non è esatto” in kurdo. Uno dichiara di non conoscere il kurdo ma non vuole parlare in turco quindi invita il Presidente a leggere lui
stesso le generalità di ognuno.
Non con poche difficoltà il Presidente termina di leggere tutte e 103 le generalità dei detenuti, sudando e sbuffando in continuazione.
Le donne, serene e altere, affrontano la Corte con estrema dignità e confermando il carattere fiero del proprio popolo e la volontà di continuare ad affermare il proprio diritto ad esistere.
Muhammed Erbey , avvocato che difese Dino Frisullo, compagno italiano arrestato al Newroz del 1998, appare provato, con i capelli grigi e con un portamento meno autorevole di un tempo. E questo nonstante l’età ancora relativamente giovane. Personaggio notissimo in ambito forense e non solo per essere stato per anni il Presidente dell’Associazione dei Diritti Umani (IHD) proprio a Diyarbakir.
D’altra parte sembra che questa importante carica internazionale non sia motivo di interesse (e vanto) in Turchia visto che l’attuale Presidente del medesimo organismo si trova proprio tra i detenuti di oggi nell’Aula della bella e antica città di Diyarbakir.
Molto duro il giudizio del collegio di Difesa riguardo ai contenuti del processo stesso. L’operazione “KCK” (Koma Civakên Kurdistan, Confederazione del popolo del Kurdistan) è stata definita dagli avvocati che difendono gli imputati come un’azione di annientamento della società civile kurda ed, in particolare, di azzeramento della sua viva vita politica.
Le accuse vengono lette dal Pubblico Ministero che non si limita a leggere gli articoli del codice che si presume siano stati violati, ma descrive le operazioni di Polizia svolte ed esprime le proprie considerazioni sulle abitudini politiche degli imputati e delle organizzazioni da loro frequentate.
La relazione dell’accusa è, comunque, ridotta a 900 pagine, anche se l’utilizzo di tale riduzione chiesto dalle difese, era stato ufficialmente rigettato. Ancora una volta si rivela l’inutilità della norma formale e si afferma la praticità della norma sostanziale da parte del potere che utilizza il diritto a su piacimento.
La giornata si è infine chiusa con la richiesta di liberare tutti gli imputati secondo il principio di diritto di libertà, fondamentale criterio secondo il quale deve essere salvaguardato un principio primario rispetto a qualsiasi esigenza di carattere procedurale. I Giudici si sono riservati di comunicare la loro risposta nella mattinata di domani.