venerdì 28 gennaio 2011

PROCESSO KCK

 di Carlotta Grisi - Il processo cominciato il 18 ottobre scorso contro 151, ora 153, membri della società civile e politica Kurda, e la cui conclusione era programmata per il 12 novembre (24 giorni totali), è ripreso il 13 gennaio 2011 dopo una pausa di due mesi.
Gli imputati e i loro avvocati richiedono che venga rispettato il diritto di esprimersi nella lingua madre come scritto nei trattati internazionali (Trattato di Losanna, art.39), esigono di parlare e difendersi in kurdo. Dall’inizio del processo gli imputati si sono sempre espressi in kurdo rispondendo ‘Ez li virim’ (sono qui) all’appello e alle domande della corte. Fino ad oggi però i giudici hanno rifiutato la richiesta di difesa in kurdo, definendola una lingua sconosciuta (bilmeyen) ignorando le risposte degli imputati e impedendo agli stessi di parlare spegnendo i microfoni durante la seduta.
Oggi 28 gennaio il sindaco di Batman Nejdet Atalay si è espresso in turco. Ha tenuto un discorso di circa un’ora e mezza in cui ha presentato alla corte gli imputati, ha spiegato i loro pensieri e posizioni. “Il processo è cominciato da tre mesi ma non abbiamo ancora avuto la possibilità di esprimerci”. Atalay insiste sul fatto che tutti gli imputati sono persone che possono parlare turco, lo conoscono bene, ma essi sono kurdi e vogliono difendersi nella loro lingua, vogliono poter avere la possibilità di spiegare le loro motivazioni, difendersi dalle accuse e discutere con la corte in kurdo. “E’ un diritto naturale”, “Siamo ostacolati. Si può parlare kurdo nelle strade ma noi non abbiamo la possibilità di usare questa lingua per difenderci”, e ancora: “Per vivere con onore è necessario mantenere la nostra storia, la nostra identità, non rinunceremo ad esprimerci nella nostra lingua madre”.
Definisce questo processo un processo storico, un momento pregnante per la ‘Questione Kurda’ e il processo di democratizzazione in Turchia: “Questo processo determinerà il futuro della Questione Kurda e influenzerà l’apertura democratica”. Invita la corte a guardare alla realtà: “Questo non è un processo di colpe, ma è un processo politico”, gli imputati provengono tutti dal partito kurdo e dalla società civile kurda, “non abbiamo commesso alcuna colpa solo fatto politica: politica kurda in kurdo”. Sottolinea il fatto che in una democrazia è fondamentale avere un’opposizione libera che possa esprimersi, opporsi e criticare l’operato del governo. “Noi siamo persone che ‘fanno opposizione’”, persone che attraverso la politica, con strumenti legali e legittimi, sostengono le loro idee e cercano di migliorare il sistema in Turchia, aggiungo io.
Atalay critica poi la visione monolitica dello stato: non si può sostenere che turchi e kurdi vivono assieme senza alcuna discriminazione in Turchia quando nella costituzione e nelle leggi è scritto che vi è una nazione, una lingua, una bandiera. Critica anche l’azione del partito AKP, sostendendo che questo processo farsa non è che l’esempio eclatante della politica ‘a doppio binario’ del governo verso i kurdi. La seduta finisce.

I famigliari e i presenti si alzano, cominciano a battere le mani, un battito di mani che si protrae e si trasforma in una musica ritmica, forte, i famigliari non possono che ‘gridare’ con le mani il loro appoggio, mostrando alla corte che il popolo kurdo sostiene gli imputati, loro rappresentanti.
La seduta riprende nel pomeriggio. L’aula è vuota. I giudici al loro posto, gli avvocati seduti nei banchi laterali, i famigliari in fondo, ma nel centro dell’aula solo file di sedie vuote. Gli imputati non si sono presentati. Prende la parola un avvocato il quale dichiara di non procedere nella difesa degli imputati fino a quando non verrà accettata in lingua kurda. Tutti si alzano ed escono dall’aula. Il processo è postposto a martedì primo febbraio.
Nessuno sviluppo positivo.