giovedì 10 giugno 2010

Mi ritiro dal processo di pace, dopo tanti ma inutili tentativi

di Abdullah Ocalan
Per riuscire a comprendere la questione kurda è necessario dare uno sguardo al background storico. La tragedia continua dimostra come questo problema storico non sia di facile soluzione. Dopo che il nazionalismo turco divenne una dottrina di stato, il popolo armeno e il popolo aramaico diventarono vittime di un aperto genocidio. I kurdi invece furono sottoposti a un genocidio strisciante attraverso la negazione della loro identità. La loro lingua fu vietata, i nomi di persona e di luoghi «turchizzati», terrorismo di stato e umiliazione diventarono parte integrante della loro vita quotidiana - e tutto ciò fino al passato più recente.

I kurdi furono scacciati, derubati dei loro beni e averi e condannati alla povertà; migliaia di villaggi vennero dati alle fiamme. Le donne diventarono il bersaglio di una politica sessista, i bambini sottoposti sistematicamente ad assimilazione. Si doveva privare il popolo kurdo del proprio futuro. La nostra ribellione era indirizzata contro questo genocidio economico, politico e culturale. Unico scopo della nostra rottura storica era porre fine alla tragedia del nostro popolo.
Dopo trent'anni di lotta, il popolo kurdo si è spinto tanto in avanti nella ricerca della libertà e della propria identità che un ritorno non è più possibile. Con la creazione di una cultura persistente della resistenza democratica abbiamo ridato agli uomini la loro voce.
Né l'inizio della guerra, né la sua continuazione sono stati per noi la scelta preferita. I nostri «cessate il fuoco» ne sono una prova. Sebbene abbiamo rivolto i nostri appelli alla pace a vari governi dai più diversi orientamenti politici, lo stato ha sempre risposto esclusivamente col tentativo di annientarci o costringerci alla resa.
Anche durante i miei undici anni e più di prigionia, non ho mai lasciato niente di intentato per il raggiungimento di una pace duratura. La pace strategica e la politica democratica sono diventate una visione nazionale dei kurdi.
I nostri tentativi di pace sono rimasti senza risposta. Si sono svolti colloqui non ufficiali, col solo scopo di tenerci a bada. In un anno sono stati arrestati più di 1.500 politici kurdi. Non è stato lasciato il minimo spazio a un contributo politico pacifico. Pertanto non logorerò oltre la pazienza del popolo kurdo. A partire dal 31 maggio 2010 mi sono ritirato dal processo di costruzione di un dialogo. Cosa accadrà adesso, se guerra o pace, dipenderà esclusivamente dalle decisioni del Kck (Confederazione democratica del Kurdistan). Dal 31 maggio non sono più responsabile di quanto accadrà. Tuttavia, se il governo dovesse essere veramente interessato a una soluzione pacifica e durevole del conflitto, mi metterò nuovamente a disposizione, ammesso che entrambe le parti lo vogliano.
La nostra lotta non è una battaglia etnica. La rivoluzione kurda è piuttosto il cuore del Medio Oriente. Questa rivoluzione porterà cambiamenti di tale portata, da poter essere paragonata per capacità di risultati alla rivoluzione francese o alla rivoluzione russa. Diversamente da queste però, la rivoluzione kurda sarà libera dal nazionalismo. Il modello di soluzione da me proposto si basa sul modello di un'autonomia democratica; una soluzione in base alla quale i conflitti interni non vengono portati oltre i confini.
Dall'altra parte rifiutiamo l'egemonia universale delle potenze dominanti, senza per questo entrare in aperto conflitto con loro. È possibile assicurarsi una propria esistenza e dei principi propri in modo duraturo, senza essere assorbiti dall'egemonia globale, detta anche «impero». La soluzione di questo problema sulla base di un'autonomia democratica avrà un influsso positivo sull'intero Medio Oriente.
(Traduzione di Simona Lavo)